Anche solo per una notte
“Mi porti via quindi?”
“Sì”.
Sono fuggito per trovare me stesso e sono finito in Marocco, non so che versione di me stesso sto ricercando, tra le sabbie che sembrano artificiali in groppa a un cammello legato ad altri cammelli in fila indiana, per raggiungere un campo di tende.
Ho prenotato su Booking quella che doveva essere un’esperienza di solitudine e mi ritrovo con una coppia di americani - lei incazzata nera e lui che si scatta i selfie che pubblicherà su qualche social con l’hashtag #wonderlust - e una famiglia di olandesi rossi. Seguo l’ondeggiamento dell’animale stanco e mi maledico per questa scelta così idiota. Il Marocco, ma per quale assurdo motivo?
Il pelo dell’animale mi solletica la gamba nuda e il ragazzo che guida la carovana di persone in cerca di un’esperienza lo fa con atteggiamento stanco e annoiato, con gli occhi di chi disprezza un mondo che lo vede come animale da circo. Sorride, prendendoci per il culo e contando i soldi che riuscirà a racimolare per un’ora e mezza di traversata. Dune alte col tramonto che sembrano fatte dall’intelligenza artificiale da quanto sono perfette. È tutto perfetto tranne me, che con le costole scassate mi chiedo se mai riprenderò a respirare.
Ci lanciano nel campo e la mia tenda è troppo grande per una persona, sola, quanti me stessi possono starci qua dentro. Tessuti che cadono dall’alto, sei cuscini sulle lenzuola e le coperte che la sera nel deserto fa freddo, divani pieni di sfumature rosse con cuscini cilindrici e tondi, quadrati, rettangoli e disegni astratti. Tra poco c’è lo spettacolo dei musicisti berberi intorno al falò, a noi turisti danno un bicchiere di vino che chi se ne frega chi può bere deve poter bere ovunque. A cena non vado, con le luci soffuse mi guardo nudo allo specchio e mi dico che posso ancora scopare. O anche fare l’amore.
Iniziano a suonare e mi precipito fuori, mi sembra una mancanza di rispetto rimanere in camera mentre c’è l’arte che risuona tra la sabbia. Mi metto la giacca di jeans ed esco dalla tenda accendendomi una sigaretta e sperando che non notino il mio disinteresse.
Nel fuoco che mi scalda la faccia, alto, e che dà al mondo un colore sconosciuto incontro i suoi occhi verdi e mi sembra di vedere un demone vestito di blu scuro. La pelle alla luce delle fiamme alte sembra rame, o almeno il pezzo che riesco a vedere del viso nascosto dai tessuti e delle mani. Lo voglio, vedere e toccare, tutto. La litania musicale mi rimbomba nelle orecchie, i tamburi percossi mi portano nella paranoia di un film di Ari Aster, gli strumenti metallici di cui non conosco il nome mi trapassano i timpani e mi sembra di essere allo stesso tempo a un funerale e a un baccanale. Gli altri guardano divertiti lo spettacolo e io mi inquieto, che gli occhi del demonio mi hanno trapassato e ho smesso di vedere e vorrei solo esplodesse tutto per risvegliarmi. Mi sudano le ascelle e mi si gonfia tutto, un’erezione prima di morire.
Il ragazzo fissa i suoi occhi su di me e divento più duro, non voglio smettere di guardarlo e spero mi pietrifichi, una Medusa non decapitata ma costretta a vincere. La musica finisce e tutti si alzano per andare a dormire perché l’alba ci aspetta per essere fotografata e la sveglia ci impone il sonno e il silenzio. Il ragazzo aspetta e con la testa indica la mia tenda. Mi alzo senza nemmeno guardarlo e mi incammino veloce alla porta, mi segue senza dire una parola.
Lo faccio entrare e si siede sul letto, in un movimento che pare naturale e consueto. Si mette una mano sul petto e dice “Amine”. Non capisco che cosa vuole.
Di nuovo, Amine, e indica me. Si batte di nuovo la mano sul petto, due volte.
È il suo nome.
Gli dico il mio e come se gli avessi dato un comando inizia a togliere la stoffa dalla testa.
“Berbero?” gli chiedo.
Mi deride, mostrando i denti e scuotendo la testa.
“Oui, no, Amazigh”, di nuovo si batte sul petto.
Non capisco, di nuovo. Ma smetto di provare a parlarci.
Prova a parlarmi in inglese, mi spiega che Amazigh è il nome berbero per i berberi. “È uguale”, gli dico. E allora per me sei أغيل ن إيطالي mi dice.
Mi innervosisco ma quando si spoglia dimentico tutto. Le gambe sono piene di peli, è seduto sul bordo del letto coi talloni appoggiati sul tappeto rosso bianco e blu. Affondo la faccia tra le sue gambe e l’odore che sento non l’ho mai sentito, mi si rivoltano gli occhi all’indietro e non faccio nient’altro, mi incastro nell’incavo del suo corpo dove posso smettere di cercare qualcosa di me che temo perduto ma che, a questo punto, penso di non aver mai avuto. Appoggia la mano sulla mia testa e mi chiede che cosa voglio.
“Vorrei portarti con me”, gli dico. Mi risponde che lui sarebbe durato quanto quella notte in mezzo al deserto. Gli prendo la mano e vedo l’unico tatuaggio che ha, ovvero una linea verticale con due mezzi cerchi alle due estremità. Freeman, mi dice, uomo libero. E a quel punto lo giro ed entro dentro di lui.
Mi porti via quindi? mi chiede con l’alba che bussa dopo quella che sarà stata un’ora di sonno.
Sì, gli rispondo, sapendo entrambi che non succederà. Gli dico di farsi un caffè o un thè e vado in bagno a lavarmi sperando di perdermi la jeep del ritorno, non tanto per restare quanto per non dover andare. Quando esco ancora bagnato e con soltanto l’asciugamano sulle spalle non c’è già più e penso che alla fine la mia esperienza l’ho proprio fatta completa.
Preparo lo zaino ed esco di fretta, l’alba è passata e vedo sulla duna più alta i tanti corpi di chi ha seguito il programma alla perfezione, il tempo scandito dall’assurda meraviglia di un sole che sorge. Mi rendo conto che nonostante la doccia quell’odore non se ne va, l’odore della mancanza di rimorso che mi si è appiccicata alla pelle come sabbia bagnata.