Canzone per dire addio
C’è stato un momento in cui l’unico pezzo del mio corpo che sentivo era il polso. Mi mettevi le due dita lì, dove scorre il sangue, e sentivo pulsare una vita che non era la mia. La pressione del tuo indice e del tuo medio accendeva un solletico dietro la nuca e la mia agitazione se ne andava. A domanda “Senti se sto bene?”, sorridevi e senza aggiungere altro sapevi già cosa fare. Era il silenzio che mi abbracciava, era il tempo sospeso, la morsa in cui mi stringevi e da cui speravo di non essere mai liberato.
Sempre nudi, solo una notte, mai una dietro l’altra. Poche ore mangiate sul letto, foto scattate all’insaputa dell’altro, parole che si accavallavano e condivisioni di esistenze che non si sarebbero mai appartenute. Sei stato lo stereotipo che non avrei mai voluto incontrare e che rimpiango ogni minuto, perché non ci sei più.
Vedere il lato bello, diceva Pier, accontentarsi del momento migliore, fidarsi di quell’abbraccio e non chiedere altro perché la tua vita è solo tua e per quanto io voglia, per quanto mi faccia impazzire non avrei potuto cambiarla in mio favore. Le leggevo ogni giorno queste parole, come un nam myoho renghe kyo personale, per convincermi che il controllo ce l’avevo io, in fondo. Che non avrei perso nulla perché non c’era niente da perdere. Che, lo sapevo, eri soltanto un modo per fuggire dalle stanze divise del mio quotidiano. C’è la sagoma tua nel letto mio, più definita degli ultimi anni in cui sono sparito.
Ho un certo feticismo all’annullamento, sprofondare nei pezzi minuscoli dei miei organi e annegare nel mio sangue. Vivevo spento i giorni in cui ti sapevo lontano nelle notti in ospedale, e il secondo che mi toccavi, il nucleo centrale della mia decomposizione si riattivava e mi ricomponeva, accendendomi di una vita nuova.
Mi hai mangiato le gambe, mi hai tenuto al guinzaglio, mi hai abbandonato in un buio senza elettricità, mi hai nascosto alla tua esistenza, e non c’era nessun altro posto in cui volessi stare. A pensarci bene sono state infinite le notti in cui il ritmo animale ci faceva sudare, sciogliere, digerire, dormire, bere e ricominciare, consumare. Non riesco più a dire il tuo nome ad alta voce, che se qualcosa viene nominato allora esiste e io non posso permettermi di farti esistere di nuovo.
Nella bancarella di libri usati accarezzo i dorsi di gente sconosciuta, ne apro uno a caso. E Vania? Vanna? Valeria? Scrive di me.
Al mio amore, con la preghiera che oltre a sé stesso, gli rimanga il tempo di amare me, che lo amo certamente più di me stessa.
Amare? Ti ho amato? Mi hai amato? Troppo grossa questa parola. Chissà se ho mai amato nessuno, pensieri banali che non so come tradurre. Ci siamo appartenuti, però, questo è certo, nonostante le tue reticenze. Che poi quanto è ridicolo provare a dare una parola a qualcosa che nei limiti delle lettere ha soltanto l’effetto di essere depotenziata. Più mi allontanavi, più mi respingevi, più volevo stare sotto di te. Più mi chiarivi che niente sarebbe successo, niente di più sarebbe accaduto oltre a quelle poche ore, più ero convinto che ci saremmo amati a lungo. Ero la protagonista di un romanzo rosa che viveva di illusioni e speranze con il cliché come compagno.
Non so perché ce ne siamo andati. Forse hai avuto compassione. E per questo ti ringrazio. Ma ogni tanto, nei sogni, mi torna il gesto del tuo polso sul mio, un tocco che non era cura, non era possesso, non era promessa. Era essere, un secondo alla volta, esserci quando tremiamo, anche solo per un momento. Mi trovo a volte, di notte, a posare le mie dita sul mio stesso polso e provo a ricordare il ritmo. Non è più il tuo, certo. Ma nemmeno solo il mio. È un battito ibrido, qualcosa che abbiamo lasciato in sospeso e che non tornerà. Siamo soltanto una frequenza che attraversa le vene.
Fidarmi del tuo addio.