Valore
La mia vita per un certo periodo ha avuto un prezzo costante: 2,20€. Quando valeva di più arrivava a 2,70€, in offerta, durante determinati periodi dell’anno, costava 1,99€.
Quando ci siamo trasferiti fuori dal centro, in un paesino lontano circa quaranta minuti in bus dalle mura, tornare da scuola era diventato un incubo. Sul bus mi incastravo nel sensore ottico del lettore cd portatile e nella voce di Amy, sperando in continuazione che quell’ipnosi non si interrompesse con gli sbalzi della strada riportandomi alla realtà. Dalla fermata a cui scendevo c’erano altri dieci minuti a piedi fino al cancelletto di metallo, attraverso cui si accedeva al giardino. O nel mio caso al rettangolo di erba incolta che cresceva indisturbata.
“Non c’è nessuno che se ne può occupare”, mi diceva mia madre. E allora perché cazzo l’abbiamo presa questa casa? Pensavo io, ma non dicevo nulla, perché alla prima parola sbagliata i muri collassavano travolti dall’ira materna portandosi dietro sorelle, cane, criceto e gatti.
Se in cucina trovavo i sofficini scongelati nel forno, pronto per essere acceso, allora sorridevo, perché la mia vita quel giorno li valeva quei 2,20€. Con gesti automatici preriscaldavo il forno a 200°C, mettevo le mezzelune su una teglia rivestita con carta da forno lasciando lo spazio tra l’uno e l’altro e infornavo, cuocendoli per circa 10-12 minuti, ricordandomi di girarli a metà cottura.
Li divoravo ancora bollenti e mi chiudevo in camera prima che arrivasse qualcuno in casa, ma nessuno tornava prima delle sette. Davo da mangiare al criceto e per diversi minuti guardavo il muratore albanese che, a torso nudo sotto il sole, stava costruendo la nuova villetta davanti.
Quando capitava che la cucina fosse vuota e i sofficini non c’erano, sapevo che sarebbe successo un casino. Il copione prevedeva una chiamata a mia madre per chiedere cosa ci fosse per pranzo ma bisognava stare attenti, perché c’era una fascia ben definita in cui chiamare: la sua pausa pranzo. Ogni volta che guardavo l’orologio tondo di plastica gialla appeso in cucina cominciava un palpito insistente che non se ne andava per diverse ore a seguire, preferivo essere in ritardo, preferivo non mangiare, non chiamare, ma sapevo, anche, che quella chiamata mia madre se l’aspettava e se non avessi chiamato l’avrebbe fatto lei arrabbiandosi per quella telefonata mancata. “Dove sei perché non hai chiamato?” mi avrebbe scritto.
Sapevo che la mancanza dei sofficini significava qualcosa di molto più grande di un semplice pranzo saltato. E avrei dovuto prestarmi a quel gioco, perché è falso che un pericolo si sventa, un pericolo si rimanda e basta, se non si affronta in quel momento specifico non sparisce, semplicemente si sposta in avanti, ma è lì, che ti guarda e, con pazienza, ti aspetta.
Se davvero arrivavo tardi a casa, quando la pausa pranzo di mia madre era finita, alla sua domanda rispondevo con la verità: un autobus non passato, un ritardo a scuola, una sosta con degli amici nel cortile. Se invece arrivavo in tempo, a quel messaggio a volte non rispondevo e fingevo di essere arrivato tardi, altre volte chiamavo.
“Buongiorno sono Luca mia madre è lì?”
“Certo Luca ciao te la passo”.
E da quel momento sapevo non solo che comunque non avrei mangiato, ma che qualunque cosa dicessi sarebbe stata la miccia di un’esplosione che sarebbe avvenuta o lì al telefono o al rientro in casa. Tra le due preferivo il primo scenario, che almeno non c’erano oggetti che potevano essere lanciati contro di me, né la conseguente bugia che avrei dovuto raccontare a scuola o agli amici. E sempre in quell’attimo sapevo che la mia vita non valeva 2,20€.
“Ciao Ma”
“Hai visto che non c’è da mangiare?”
“Sì ho visto”
“E lo sai di chi è la colpa?”
“Sì lo so di mio padre”
“Sì, chiamalo, non c’ha dato gli alimenti, diglielo che non puoi mangiare, che non c’hai il pranzo e che oggi sta a digiuno io non so più come fare, siete tre, devo provvedere solo io a voi tre e vostro padre no a te ti sembra giusto? Per favore chiamalo e diglielo, io non ho più soldi e quello di oggi è un inizio non ho i soldi nemmeno per la cena di stasera quindi chiamalo e fammi sapere che cosa ti dice”. La telefonata si interrompeva. Niente criceto, niente albanese nudo, soltanto telefonate a mio padre, poi a mia madre per riportare quello che aveva detto mio padre, e così via. Anestetizzato, diventavo. Le parole si affollavano in testa e ogni volta mi coglievano impreparato perché appartenevano a un vocabolario emotivo che io ancora non conoscevo: quello delle ripercussioni per i torti subiti in amore, delle aspettative disattese su una vita di agi che non arrivava, delle colpe riflesse nelle urla dell’altro, un gioco del telefono senza fili il cui risultato finale era soltanto un’incomprensione maggiore.
Il gioco tossico si interrompeva quando uno dei due smetteva di rispondere. E tutto ciò che dovevo fare era attendere, perché anche in questo caso il copione già scritto prevedeva la resa di una delle due parti: se si arrendeva mia madre andava a letto verso le nove e dormiva ininterrottamente fino al giorno successivo, senza mangiare niente lei né noi, se si arrendeva mio padre ci veniva a prendere e ci portava a casa sua, improvvisando qualcosa come pasta in bianco o frittate. Il giorno dopo tutto tornava alla normalità, che non era la normalità dei miei compagni di classe ma la nostra normalità, sperando ogni minuto che, una volta tornato a casa, dopo il bus, il lettore cd, i pochi minuti a piedi, quei sofficini fossero lì ad aspettarmi.